Ecco il testo integrale della riflessione di Gabriele Di Francesco (professore associato di Sociologia Generale presso l’Università G. D’Annunzio, Chieti-Pescara) sui temi del convegno di Castroreale, già pubblicato in forma ridotta su Cose Nostre di giugno 2017
Tra le sfide del nostro tempo una delle più grandi, gravide di conseguenze per l’umanità e forse meno sentite, non è tanto rappresentata dalla quotidiana evoluzione/rivoluzione tecnologica, ma dal contrasto tra realtà e virtualità, tra concretezza e immaterialità, per dirla in altri termini tra realtà vissuta e realtà comunicata, in un mondo che è ormai sempre più condizionato da network grandi e piccoli. La scarsa consapevolezza da parte delle grandi masse degli strumenti del comunicare sta producendo un salto cognitivo che ancora non sembra essere stato compreso.
Più forte di mille tzunami le ondate dell’innovazione tecnologica hanno stravolto il mondo della comunicazione senza che noi ce ne rendessimo conto. E anzi senza che la maggioranza delle persone si renda ancora conto della portata e degli effetti (guasti?) già prodotti ed evidenti.
La nostra vita è ormai nella tempesta quotidiana di notizie, messaggi, videoclip, immagini di ogni tipo diffuse, ampliate e spesso modificate dalla rete capillare di smartphone di cui ci siamo circondati – si ritiene più per induzione persuasiva che per necessità oggettive – sotto la spinta al consumismo delle grandi multinazionali della tecnologia telematica. Nascono così mille comunità, migliaia di gruppi puramente virtuali in cui basta un clic per esprimere la propria volontà, il proprio punto di vista, per diventare “amico”, o meglio follower.
Frastornati in questa Babele telematica, si perde inconsapevolmente il senso della realtà per entrare in un mare tempestoso di notizie insieme vere, verosimili, false, dove realmente si confondono valvole e chip con le sinapsi, come profetizzava Alan Turing, e dove ugualmente mutano con la comunicazione, le strutture sociali, le modalità e i modelli delle relazioni umane. La tecnologia sembra permettere una grande libertà di informazione, una smisurata espansione delle possibilità comunicative. In realtà tali libertà non sono mai autonome, ma soltanto di adattamento, libertà mediate e condizionate, dove il condizionamento è parte integrante dell’uso del mezzo, di cui si perde la consapevolezza. Libertà illusorie dunque, che non permettono altro che eseguire quanto è stato pensato e deciso altrove e dove anche l’informazione si snatura in ripetitivi stilemi di pagine facebook o di blogger falsamente individuali e a loro volta condizionati, molto spesso e se non altro, dall’invadenza dei network comunque mercantili che producono news alla velocità della luce per stare al passo con il “mondo reale”!
Il condizionamento delle coscienze è forte. Il giornalismo perde la sua funzione comunicativa per divenire patrimonio individuale di ognuno, strumento e piazza emotivi per colpire e diffondere odio e violenza insieme con grandi ondate di commozione globale. I fatti obiettivi sono sempre meno influenti nell’orientare la pubblica opinione rispetto agli appelli all’emotività e alle convinzioni o credenze personali. L’era della post-verità si nutre spesso di emozioni indotte e di fake news, che richiedono soltanto un “I like” di adesione piuttosto che una minima razionale riflessione, secondo i modelli della liquida e società dei loisirs.
“È semplicemente una nuova e specifica struttura sociale” osserva Manuel Castells, “i cui effetti sul benessere dell’umanità sono ancora indefiniti” e dove tutto dipende dal contesto e dalle modalità. “Il punto” affermava d’altra parte Skinner “non è stabilire se le macchine sono in grado di pensare; la domanda vera è se sono capaci di farlo gli essere umani”.
In questo quadro è da chiedersi se sia mutato anche il ruolo del “giornalismo di comunità”, quel giornalismo che lega i piccoli gruppi, le comunità locali, e serve di rinforzo alla costruzione dell’identità sociale dei singoli membri. L’approdo sempre più massiccio al web potrebbe in realtà cambiare la loro funzione aggregativa, sminuendola, e trasformare le comunità in community? Si vuol credere di no, anche se nessuno può prevedere le linee di tendenza di fenomeni così fluidi. Si vuol credere anzi che proprio il giornalismo di comunità possa continuare a portare chiarezza, istanze di libertà e maggiore attendibilità nell’informazione nell’era delle post-verità.
Gabriele Di Francesco